Tre letture d’estate

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Oggi vi propongo uno sproposito, una di quelle operazioni ritenute universalmente inopportune, e cioè paragonare tre libri diversissimi tra loro per genere, tema e tono. Vorrei riflettere su quello che li accomuna e su quello che li distingue, e scrivendo spero di focalizzare questi tratti, dato che è così che spesso faccio: scrivo per capire.

Comincio col parlare di Patria, di Fernando Aramburu, poi toccherà a La teoria del moltiplicatore, di Rossana Pessione e in ultimo, in rigoroso ordine di lettura, arriverà Il buio dentro, di Antonio Lanzetta.

Il primo elemento comune è la molteplicità dei punti di vista, delle voci narranti.

Nei romance (di cui edito le traduzioni), si ritrovano spesso alternati capitoli col punto di vista di lei e di lui. Non è qualcosa di così strano. Che sia la diversità di esiti ottenuti con lo stesso escamotage narrativo, il punto? Vediamo.

“L’autore deve essere uno che deve portare, almeno idealmente, il punto di vista di tutti i suoi personaggi” dice Giulio Mozzi – autore, scout per le case editrici e insegnante di scrittura – in questo breve e interessante video. E nelle mie tre letture, infatti, non si parla del doppio punto di vista – che ho sempre utilizzato anch’io – ma piuttosto di una coralità che la storia assume. E verrebbe in mente il Giovanni Verga dei Malavoglia, in quel secondo capitolo del romanzo nel quale il punto di vista passa, come una carrellata di tipo cinematografico, dall’una all’altra delle donne affacciate sull’uscio delle case a chiacchierare…

Di Patria, qualcosa mi aveva incuriosito leggendo la trama e i pareri dei lettori. Il romanzo descrive uno spaccato di vita a cavallo degli anni Settanta-Ottanta in un paesino basco, con le conseguenze della presenza e dell’incidenza dell’Eta fra i membri di due famiglie, dapprima molto unite e poi drammaticamente divise dall’uccisione di uno di loro. Certo, si potrebbe parlare di un romanzo storico, ma non sarebbe forse molto esatto, perché quello che interessa all’autore è offrirci un insight della coscienza di ognuno dei membri delle due famiglie coinvolte a vario titolo nella causa basca, dalla lotta terrorista vissuta in prima persona, fino alle conseguenze in termini di cristallizzazione ideologica soffocante, a partire soprattutto dalle due matriarche, prima grandi amiche e poi nemesi l’una dell’altra.  

La trama è questa, ma il valore del libro non può ridursi all’insieme delle vicende narrate. Del romanzo è interessante il modo di procedere: l’autore analizza sì i movimenti intimi di padri, madri, figli, figlie, ma lo fa zigzagando nel tempo, avanti e indietro nel passato fino al presente. A ogni inizio di capitolo, il lettore deve capire in che momento siamo e chi sta parlando, e lo può fare anche attraverso la scrittura che diventa povera di congiuntivi o estremamente semplice, o piena di introspezione, o di rabbia o di repressione a seconda di chi sia a narrare. Inoltre, si slitta facilmente dalla terza persona alla prima e addirittura ci sono tracce di una sorta di dialogo col lettore sotto forma di domanda.

Avete presente quando qualcuno che racconta intercala, retoricamente, “e che successe? Successe che…” o locuzioni del genere? Ecco, Fernando Aramburu usa un appena accennato sfondamento della “quarta parete” per creare una familiarità fra chi legge e i vari personaggi, auscultando i lievi passaggi che ne costituiscono l’evoluzione nello scorrere degli anni, attorno al nucleo urgente e dolente che è l’assassinio, quel fuoco che ha separato e incatenato ulteriormente le due famiglie. Così si insegue anche il percorso di avvicinamento e allontanamento di ognuno dall’ideologia dell’indipendentismo basco e dall’Eta, indagando nel tempo anche il momento della lenta caduta del fenomeno terroristico.

Aramburu ottiene l’effetto straniante di essere “dentro” l’anima delle voci narranti, con un risultato labirintico, che genera come un senso di oppressione, quasi di chiusura. Se il fine era far sì che i personaggi e la storia rimanessero, Aramburu è riuscito nell’intento, forse anche instillando volutamente disagio in chi legge. Dopo seicento pagine, poi. Non si può comunque negare l’originalità della struttura narrativa e degli escamotage usati, non virtuosistici nell’intento ma efficaci in assoluto.

Quello che mi colpisce è l’uso estremo dei punti di vista in forse nove personaggi diversi (potrei essermene perso qualcuno) che immerge il lettore, costretto a seguire il puzzle al fine di ricostruire, per tessere diverse (con coordinate che sono tempo, spazio e individualità dei personaggi), essenzialmente una vicenda umana, interessante per se stessa più che per gli eventi storici.

 

Il secondo romanzo è La teoria del moltiplicatore, di Rossana Pessione. È un giallo, un thriller, ma al di là delle caratteristiche del genere, in comune con Patria ha forse la struttura a puzzle.  

È ambientato nel mondo della donazione dei corpi alla scienza. I cadaveri donati vengono sezionati in parti e spediti alle scuole di medicina e alle accademie dove i medici o gli aspiranti tali potranno fare pratica ed esercitarsi senza fare danni ai vivi. C’è un’atmosfera particolare, che sfrutta un’idea inquietante ma che di fatto è anche una realtà poco conosciuta. Ovviamente c’è in ballo un mistero, anzi più d’uno, che riguarda i personaggi che lavorano nell’Accademia, ma anche quelli che curano i malati terminali in una clinica specializzata adiacente alla prima. Opportuno, vero? Non si spreca niente. Non voglio aggiungere altro della trama: il romanzo, autopubblicato da una giornalista che ha fatto un’interessante e meticolosa ricerca, merita di essere letto.

Anche in questo testo troviamo una struttura in cui il lettore inizialmente si perde, sia per il cambio frequente dei punti di vista, sia per l’alternanza della prima e della terza persona. Come in una costruzione di mattoncini Lego, in cui l’edificio cresca parimenti da un lato e dall’altro, anzi dagli angoli di un poliedro, la storia procede per un’accumulazione distribuita, cosicché noi si possa conoscere i personaggi a vario titolo coinvolti – e pure i comprimari hanno il giusto spazio – a partire dal loro background che spiega la personale motivazione ad agire, la concatenazione di cause che li porta a compiere determinati gesti, che azionano le leve che portano avanti l’effetto domino che alla fine rivela il disegno che prima era solo abbozzato.

L’autrice ha lavorato molto perché tutto combaciasse, funzionasse e avvincesse. Un appunto che si può fare è sulla caratura dei protagonisti, se così si possono chiamare, dato che fanno parte integrante del coro. La storia avrebbe forse avuto bisogno di una densità maggiore dei due personaggi principali. Non che l’approfondimento psicologico manchi, anzi. Il romanzo offre anche diversi momenti lirici e descrittivi, importanti per non correre il rischio di dare importanza primaria al congegno della trama a sfavore degli altri aspetti. Io credo però che il lettore – almeno un lettore che mi somigli – possa aver bisogno di un’attrazione di pancia, un innamoramento, un’immedesimazione che lo avvinca ai protagonisti.

In Patria si ottiene questo effetto con un’accumulazione quasi ossessiva di tessere narrative, che rende conto diacronicamente dell’evolvere di ciascuno. Con un’intensità che si ottiene con la lentezza, come un lavoro all’uncinetto o al telaio che a ogni passaggio sveli uno dei motivi e dei colori dell’ordito.

Ma se nel primo romanzo a crescere sono i personaggi, in La teoria del moltiplicatore a crescere è la trama. Il mezzo è lo stesso, ma è applicato a elementi diversi.

I personaggi devono alla fine essere veri, credibili, si devono poter amare o odiare. Come lo scrittore ci conduce a questo legame viscerale, anche se solo vissuto nello spazio più o meno lungo della lettura (ma se è davvero bravo, non ci lascia più)?

 

Nel terzo romanzo, Il buio dentro, di Antonio Lanzetta, questo lavoro di fino è condotto diversamente. L’autore costruisce i personaggi principali e gli ambienti con un uso estenuato della lingua, intenso, ossessivo. La trama funziona – si rivelano i legami fra passato e presente col procedere della storia – ma non ha la chiarezza che l’autore ottiene per esempio nel secondo romanzo della trilogia, I figli del male. Abbiamo un giornalista segnato dal dolore, zoppo come Giacobbe dopo che ha combattuto con l’angelo, come viene ritratto spesso il demonio, o Achab, o Long John Silver. C’è un protagonista ragazzino nel 1985, c’è un giornalista/scrittore nel presente e c’è il cattivo di cui conosciamo la voce, le ossessioni, ma non ovviamente l’identità. Il primo procede verso e il secondo parte da un omicidio rituale, efferato, che ha sconvolto di nuovo il paesino del Cilento dove la storia è ambientata, che replica quello avvenuto trent’anni prima. L’assassino suona come la voce altra, quella che ascolta con più attenzione quel buio dell’anima, che però tocca tutti, nessuno escluso.

Come si vede, il romanzo pigia altri tasti. Non presenta una concatenazione precisa di fatti e ambientazioni – o meglio, la concatenazione c’è ma non sembra il primo obiettivo dell’autore – quanto scava nelle nevrosi, nel vissuto difficile, nelle ferite profonde delle voci narranti. Il lettore vuole capire meglio il legame che c’è fra il passato e il presente, vuole scavare nell’abisso di male al quale l’autore ci vuole condurre. In verità, chi sia l’assassino non mi pare difficile da capire, ma forse sono io… Il punto però è che la pluralità dei punti di vista e i due piani temporali consentono di tracciare le mappe mentali, i percorsi iniziatici che hanno portato i protagonisti a sprofondare nel dolore e nell’oscurità che, appunto, hanno dentro. “Uomo dei dolori, familiare con il patire” recita la Scrittura: qui il dolore trova sempre una manifestazione fisica, da dentro a fuori, dolore patito, inflitto, autoinflitto. Il buio dentro è come scritto – ricordate quando si scriveva con la penna, magari sui quaderni a righe? – ricalcando fino a rompere il foglio.

Insomma, qui, per usare un’altra metafora, ci sono protagonisti più tratteggiati, come scavati nel chiaroscuro di un dipinto a olio, rispetto all’acquerello pur intenso del romanzo precedente o al mosaico di tessere policrome del primo. In quelli spicca la costruzione attenta dei tasselli, in questo l’acido delle passioni dei protagonisti.

 

In conclusione, trama e personaggi sono gli ingredienti di tutte le storie. Ogni storia vibra su una bilancia, pendendo verso il piatto della trama o verso quello dei personaggi. L’equilibrio vince. Oppure il totale disequilibrio, ma questa potrebbe essere un’altra faccenda. Ogni storia presenta uno spaccato di esistenza, costruito per ottenere un effetto in chi legge.

C’è un tema, tanti o sempre quello. Il male che l’uomo può fare, il male che l’uomo può subire, il dolore e la solitudine quanto possono schiacciare una persona, come questa può reagire, come può combattere. Come soccombe, a volte. Volendo, i tre testi parlano di questo. Forse, tutti i testi parlano di questo. Ma sto esagerando. Il punto, parlando da scrittrice e da editor, è l’alchimia particolare, la mescolanza di quantità e qualità degli ingredienti – ed eccovi un’altra metafora – che portano gli elementi di una storia ad attecchire nel lettore.

Alla fine, possiamo affermare che le storie corali, se non altro, hanno una marcia in più? A patto di non esagerare… o di essere molto bravi a esagerare.